Rowan la sua bimba di 14 mesi le ha sorriso quando l’ha vista arrivare e lei ha ricambiato con una gioia che solo gli occhi pieni di amore sanno esprimere. La mamma è tornata, pensavano. Dopo 83 ore 12 minuti e 23 secondi, diceva il tabellone.
Per riabbracciarla, Jasmin aveva corso per 431 chilometri in mezzo a prati, sentieri, viottoli. Era salita su e giù fra terra e rocce, per un dislivello di 13,000 metri, una volta e mezzo l’intero Monte Everest. Per due terzi del tempo aveva corso di notte, con una lampada in testa che le illuminava il cammino, passo per passo, portando uno zaino di 5 chili sulle spalle, che aveva l’essenziale per sopravvivere.
Aveva dormito così poche ore che alla fine aveva avuto le allucinazioni: gli alberi si muovevano e animali docili sbucavano dalle rocce. Era passata attraverso pioggia, neve, vento, freddo e fango: le intemperie di un classico inverno britannico. In questo lungo viaggio, non aveva mai fatto mancare il suo latte a Rowan. Quando poteva, nei rari punti di ristoro (che non ristorano affatto), lo prelevava e lo forniva a chi l’avrebbe portato alla bimba.
Ora Jasmin era sfinita, stanca, aveva così freddo che tremava in ogni parte del corpo, eppure era felice, non solo nel riabbracciare la sua bimba, ma era felice di sé, malgrado il dolore di una fatica oltre l’umana immaginazione. Era come se le decine di ore di corsa fossero servite a scaricare ogni zavorra interiore per godersi la semplice sensazione di esistere.
Mentre correva si era inebriata di ogni profumo fra i campi del Peak District, aveva ammirato l’alba dello Yorkshire come una luminosa fonte di vita e si era commossa ogni volta per l’ultimo raggio di luce, prima che il sole calasse dietro le verdi colline che avrebbe continuato a scalare. Amava correre e perdersi fra la natura, fra le sue Highlands, per quanto inospitali e dure potessero essere. Era lì che ritrovava sé stessa. Aveva cominciato ad allenarsi a 24 anni e dopo undici anni aveva fatto l’impresa della vita in una delle corse più dure del mondo, la Montane Spine Race.
A Edimburgo, da quando era nata Rowan, si era allenata ogni giorno. Aveva messo la sveglia alle 4 di mattina, perché non voleva perdere nemmeno un minuto a fianco della sua bimba. Spesso l’aveva portata con sé nelle sedute di allenamento. Lo chiamava il “training della maternità”. In cima a una collina, Rowan poteva vederla scendere e risalire, per decine di volte. Ogni ripetuta cominciava e finiva con un bacino e un sorriso.
Le energie, liberate nel correre almeno 80 km a settimana, l’avevano ripagata, donandole una spirale ascendente che fioriva anche quando stava ferma. Ogni fatica aveva reso Jasmin più forte, più resistente, più potente, più agile nel correre fra le pietre, soprattutto in discesa. Correndo, Jasmin si autoamplificava: nelle mente, nei sentimenti, nel corpo. Non era stato facile. Si considerava fortunata per aver avuto un parto normale. Ma riprendere a correre era stato un incubo e il suo corpo, sempre così generoso, l’aveva punita quando aveva voluto bruciare i tempi di ripresa.
Una tendinite dopo il parto l’aveva costretta due mesi negli spazi angusti di una palestra. E poi aveva ricominciato a lavorare. Tutto era diventato più complesso. Certo amava il suo lavoro. Faceva la ricercatrice all’Università di Edimburgo. Era una veterinaria e si occupava di Leucemia. Chissà se quegli animali, che alla fine della corsa aveva solo immaginato, erano anime che la ringraziavano per le sue ricerche. Pensieri mistici post gara, diceva fra sé.
Era una persona pratica e sapeva con certezza chi ringraziare. Gli amici con cui correva, il suo compagno che aveva accudito la bambina in sua assenza, i suoi genitori che da nonni erano straordinari, i tecnici che le avevano fornito preziosi consigli, gli artigiani delle sue scarpe e gli ingegneri dei suoi strumenti: erano le persone che le avevano permesso tutto questo. Anche se alla fine non aveva fatto nulla di eccezionale. Non aveva salvato il mondo né una singola vita: alla fine era solo una corsa, uno sport, un divertimento.
La vera sorpresa era arrivata il giorno dopo la gara. Quando il telefono aveva cominciato a squillare per avere interviste, le e-mail e i messaggi a moltiplicarsi di complimenti e in tutto il web, digitando il suo nome sbucavano innumerevoli articoli sulla sua impresa. Jasmin Paris aveva battuto il record di una delle corse più faticose e dure del mondo, era arrivata prima.
Il secondo, un uomo, era arrivato quando lei già sorseggiava il suo tè del mattino, ben 13 ore dopo. Arrivò persino uno sponsor a proporsi. Lei non ci pensò due volte nel rifiutare. Aveva già un lavoro che amava e lo sport era un’impresa libera. Era stata l’essere umano più veloce del mondo. Perlomeno nella distanza dei 430 km. Sai che pubblicità!
Le donne alla fine battono gli uomini. Questa era la questione all’ordine del giorno.
Dal Financial Time al The Guardian, Jasmin leggeva che i giornalisti si domandavano se le donne fossero più forti degli uomini negli sport di resistenza. Parlavano di Courtney Dauwalter, un’insegnante americana, che aveva vinto una serie di ultra-maratone tra cui, nel 2017, la Moab 240 – una corsa di 383 chilometri attraverso il deserto dello Utah (il primo uomo era finito 10 ore dopo).
Citavano le imprese simili di Nicky Spinks, Pam Reed e Lizzy Hawker, vincendo gare di corsa in percorsi da esodo biblico. Nel nuoto, raccontavano che le quattro distanze più lunghe raggiunte in acque libere, erano state completate da donne (il record di Sarah Thomas di 167 chilometri, nuotato nel 2017, è quasi 63 chilometri più lungo del record maschile). E raccontavano di come, nel 2016, la ciclista americana Lael Wilcox aveva scioccato il mondo vincendo la gara Trans Am Bike di 7100 chilometri attraverso gli Stati Uniti (la discriminazione attuale delle donne nel ciclismo è uno scandalo ben più drammatico del doping!!).
Jasmin, da scienziata, sorrideva. Sapeva che la domanda non aveva ancora risposta e forse era sbagliata, non aveva senso, esattamente come l’affermazione da cui scaturiva: ovvero che gli uomini erano più forti delle donne. Di quale forza si stava parlando? Aveva letto che fino al 1993, le donne non venivano “studiate” dalla scienza dello sport. Essendo il sesso debole, per decenni erano state escluse dalle gare. I “campioni” da studiare erano ancora pochi.
Nella sua stessa gara su 136 partecipanti, sapeva che le donne non erano più di una dozzina. Inoltre, la fisiologia riusciva a fare ricerche interessanti in laboratorio su persone che corrono distanze di 5 chilometri o per 5 ore. Ma come studiare Surasa Mairer, una segretaria viennese, che nel 2015 all’età di 56 anni durante Self-Transcendence 3100 mile race aveva coperto circa 5.000 chilometri in 49 giorni e 7 ore?
Ciò che Jasmin avrebbe voluto dimostrare era ben altro. In un tipico anno della sua vita, lei si era allenata, aveva studiato e fatto ricerche, aveva generato, allattato e curato una bimba, aveva coltivato reti di amicizie e amori. Non aveva vinto la Montane Spine Race nonostante questo, ma grazie a questo; lo sapeva con certezza. Voleva spiegare che quando fai qualcosa che ami e ti dai un progetto e un obiettivo, non esiste un piano B, non hai bisogno di una rete di protezione. Esiste solo un piano A, anche se fallisci, perché ami realizzarlo al di là del suo esito.
Come aveva trovato il tempo, gli avrebbero domandato? Il tempo non si trova, si forgia, pensava fra sé. Il tempo non è una quantità data, come una torta che più, sono le persone a condividerla, meno mangi. Sei tu che fai la torta e ne stabilisci la quantità, la qualità, il gusto. Il tempo è una creazione umana, come le risorse economiche che puoi condividere e creare anche con chi viene da una terra lontana (quelle sono le vere marce epiche).
Quando lo spendi investendo energie in qualcosa che ami, il tempo si amplifica, si dilata, si moltiplica, rallenta o si riduce, esattamente come la tua energia vitale. Il tempo lo crei e poi lo batti. E lei aveva battuto il record assoluto della Montane Spine Race di oltre dieci ore, generando per lei altrettante ore di vita. Il tempo forse era il suo maggiore alleato. Sapeva plasmarlo, sapeva giocarci, rispettandolo, amandolo e temendolo se necessario. Amava il tempo come parte della sua stessa vita.
Fonte: HuffPost