Raffaello e la creatività relazionale
(da Omega, la rivista del Coaching Umanistico, n. 5)
Quando pensiamo alla creatività, ci vengono in mente le grandi opere di ingegno, frutto di competenze e abilità straordinarie. Secondo questo paradigma, la creatività si vede dal prodotto, dalla cosa che genera. Eppure il processo che sfocia nell’atto creativo è altrettanto importante. Le relazioni umane ne sono parte integrante. Questo ambito così importante per la vita è stato da sempre oggetto di creatività. Pensiamo alle lingue e alla scrittura, due opere potentissime nate da vaste reti relazionali, simili alle sinapsi coordinate di un cervello corale. La lingua e la scrittura non erano certo dati dalla natura, ce li siamo inventati per migliorare la vita. Attraverso secoli di relazioni, in ogni tempo e parte del pianeta, miliardi di esseri umani hanno creato parole e segni per comunicare, comprendere, condividere, ricordare e programmare.
Ma quante e quali sono le forme relazionali che sono soggette a creatività? E come si manifesta questa creatività relazionale?
Per il Coaching Umanistico la creatività è quella potenzialità in grado di produrre idee nuove che migliorano l’esistenza umana. La sua origine è sentimentale: l’amore per la vita. La creatività è un motore affettivo che gira con l’energia del bene e attraversa ricerche, scoperte, errori e invenzioni. La creatività relazionale ha visto in Raffaello un maestro di assoluta eccellenza per originalità e livello. Vasari ha ben evidenziato le potenzialità di Raffaello la cui alchimia fu allenata in sorprendenti talenti relazionali. Vasari scrive che “fu dalla natura dotato di tutta quella modestia e bontà, di natura gentile, una graziata affabilità, dolce e piacevole con ogni sorta di persona e in qualunque maniera. Aveva le più rare virtù dell’animo, accompagnate da tanta grazie, studio, bellezza, modestia e ottimi costumi, quanti sarebbero bastati a ricoprire ogni vizio”. L’umiltà, la gentilezza, l’amore, l’intelligenza sentimentale sono state le potenzialità che Raffaello ha allenato come talenti fino a costruire relazioni ricche e originali, storicamente inedite. La sua creatività si è avvalsa di amore per il prossimo e la vita e apprendimento dell’arte e della tecnica, mai scisse da impegno e abnegazione assolute, da fatiche epiche e godimenti relazionali che solo in pochi in quel periodo potevano permettersi.
Qui uno schema sintetico delle relazioni di Raffaello:
Relazioni di apprendimento
Raffaello ha intessuto relazioni di apprendimento per tutta la vita. Non ha mai spesso di apprendere e non c’è periodo della sua vita senza un maestro. Raffaello viene spesso ritratto come un artista dal talento innato, prendendo a riprova che i suoi primi lavori gli vengono commissionati a 17 anni. Già allora era considerato magister. Attenzione: quando affermiamo che gli artisti del Rinascimento sono dei geni innati, da un lato possiamo sollecitare la classica meraviglia che suscitano creature fantastiche, ma dall’altro lato ci deresponsabilizziamo. Mettiamo una distanza fra noi e loro incolmabile. Non li capiamo e non capiamo cosa possiamo imparare.
Raffaello come tutti i grandi talenti era squisitamente umano. Sappiamo poco della sua formazione. Abbiamo però numerosi indizi del suo permanente apprendistato. Raffaello nasce e cresce in uno dei contesti più innovativi di Europa sul piano delle arti e della cultura in genere che era l’Urbino dei Montefeltro e in una casa situata sopra una bottega di pittura all’avanguardia. Questa bottega era diretta dal padre, Giovanni Santi, e si trovava a pochi passi dal palazzo del Duca Federico da Montefeltro, il palazzo più moderno di Italia, dove c’era una delle prime biblioteche laiche d’Europa. Giovanni Santi era poeta e pittore, imprenditore e teorico dell’arte. Conosceva tutti gli artisti del suo tempo: da Masaccio a Mantegna passando per Leonardo fino a Rogier Vad Der Wayden e Jan Van Eyck. “Era un uomo colto e attento agli sviluppo delle lettere e della filosofia, oltre che della pedagogia contemporanea” (Forcellino, p.13). Santi aveva conosciuto Vittorino da Feltre[1], tutore di Federico da Montefeltro. Era a contatto con le grandi innovazioni dell’epoca, come l’olio dei fiamminghi e i disegni prospettivi fiorentini. A 15 anni aveva conosciuto e lavorato con Piero della Francesca, Giusto di Gand, Antonello da Messina.
La preparazione dei materiali, la progettazione delle idee, la divisione del lavoro erano moderni. Si seguivano ai tempi gli insegnamenti di Andrea Cennini (Colle di Val d’Elsa, 1370 – Firenze, 1427) che aveva scritto il primo libro in volgare sulla produzione artistica e che affermava l’indispensabilità del rapporto fra maestro e allievo.[2]
A differenza dei bimbi che passavano anni nel loro apprendistato a pestare colore e gesso, Santi applicò alla formazione di Raffaello gli insegnamenti di Vittorino da Feltre, quelli di Cennini e la sua passione per l’innovazione artistica. Raffaello nacque e crebbe in questo ambiente senza dover fare tutti i passaggi che erano imposti ai bimbi. Grazie al papà, fiorì in lui una passione immensa, per l’arte, la bellezza, la vita condivisa. Non passò anni a tritare, ma a disegnare e a creare sin dai primi passi del suo apprendimento. La bottega del papà era la sua casa, la sua scuola, il suo campo da gioco, la sua famiglia. Il bimbo, buono, vivace, gentile e rispettoso, giocava con gli assistenti del papà, i quali a loro volta gli mettevano a disposizione pennelli, colori, strumenti di ogni tipo. Quando Raffaello, prima di morire progettò la sua futura casa in via Giulia a Roma, “si ricordò della felicità della casa paterna, dove dalla camera da letto sentiva i rumori e gli odori della bottega al piano inferiore e risuscitò il suo gioioso spirito infantile collocando lo studio per gli allievi, ampio e luminoso, esposto a nord per sfruttare meglio la luce, proprio sotto la sua camera da letto” (Forcellino, p.316). Dal padre e dalla sua bottega, Raffaello apprese la passione per gli impasti, le bruciature, le sfumature, la profondità delle velature a olio, l’acutezza dell’osservazione psicologica, la fisionomia umana, i loro moti dell’anima, il ritratto naturale. Da artista maturo per ore avrebbe dubitato con la punta del pennello di fronte alla piega di un sorriso o alla cupezza di uno sguardo.
Giovanni morì che Raffaello aveva 11 anni, ma non mancarono altri maestri. Lo zio Bartolomeo, invece di vendere la bottega di Giovanni, fece di tutto perché crescendo fosse Raffaello a rilevarla. A 17 anni, Raffaello fece un contratto con Andrea Baronci per una pala di altare nella chiesa di Sant’Agostino in città di Castello. Il lavoro venne svolto con l’aiuto di Evengelista da Piandimileto che era il primo assistente del padre, ne aveva ereditato la conduzione della bottega. Evangelista fu un maestro per Raffaello, ma anche un amico, con cui condividere un sodalizio artistico e intellettuale. La Pala Baronci è il punto di arrivo di questo sodalizio, il punto di svolta di Raffaello. Raffaello ha 17 anni, con una formazione in un luogo colto e all’avanguardia, sotto la cura di un padre, coltissimo, straordinario pittore e ottimo pedagogista, con una serie di maestri dal padre stesso formati, in una bottega professionale d’eccellenza: un apprendistato durato perlomeno 14 anni e a tempo pieno.
La passione per l’arte e la bellezza di Raffaello lo muoveva a grandi ambizioni. Per questo ogni occasione di lavoro era un’occasione per apprendere, ogni viaggio un’occasione per conoscere. Prima di innovare, Raffaello imparava. Fra i maestri con cui si misurò da adolescente incontriamo Perugino e Pintoricchio per esempio. Nonostante il successo che ebbe nelle Marche e in Umbria, non esitò ad andare a Firenze per formarsi. Qui frequentò le botteghe d’arte, come quella di Baccio d’Agnolo, importante architetto del tempo, responsabile della fabbrica del duomo[3], entrò nelle case di mercanti e banchieri per studiare i maestri, si mise alla scuola di Leonardo e Michelangelo.
Gli studi di ottica avevano convinto Leonardo che era la luce a determinare la percezione delle cose. Raffaello capì che Leonardo non tentava di riprodurre la realtà, ma la percezione umana della realtà, assoggettandola non solo alla percezione della natura e della prospettiva, ma anche del sentimento e dello stato d’animo. Ogni opera d’arte era relazionale. Teneva in conto la percezione dell’osservatore, la sua cultura, il suo contesto, teneva conto del soggetto dipinto, i suoi sentimenti e il suo mondo interiore, teneva in conto persino del committente, delle sue domande e dei suoi scopi. Un quadro era un universo relazionale creato dall’artista grazie ai suoi maestri. La delicatezza chiaroscurale diveniva percezione sentimentale capace di esprimere e indagare quei moti dell’anima che erano il vero motivo della pittura. La dimensione sentimentale rimaneva per Leonardo il grande mistero da illuminare. Leonardo esplorò il sorriso inafferrabile della donna, inquietante e intelligente al tempo stesso, ma soprattutto misterioso, ambiguo, enigmatico. Una femminilità liberata dal pregiudizio religioso, dove era priva di vita, divenne oggetto di indagine accurata, gentile, rispettosa. La luce sfumata, l’anatomia perfetta, rappresentano i sentimenti che mai si erano visti in pittura. Ma Raffaello sa andare anche oltre. A differenza di Leonardo, Raffaello amava le donne, aveva la sua idea di bellezza e la comprensione del sorriso diventa in Raffaello ammirazione, e superando quell’atmosfera irreale e ambigua di Leonardo le ritrasse con una sensualità tutta terrena. Con Raffaello ciò che è ideale di umanità e di bellezza simboleggia il sacro, l’essenza umana del bene e del bello viene deificata e sacralizzata, come avevano insegnato i grandi umanisti Giannozzo Manetti, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola. Quando Raffaello arriva a Firenze, Michelangelo aveva già fatto la Pietà e il David. A differenza di Leonardo, Michelangelo preferiva agli studi ottici e alle atmosfere sfumate, la forza e il sentimento che si esprimevano tramite la bellezza delle proporzioni, dei corpi in movimento che si incontrano, si scontrano, si accavallano. Le pose di Michelangelo con la torsione dei muscoli portavano a perfezione la vista del corpo in prospettiva. Con Michelangelo è la bellezza umana che diviene divina, è l’essere umano che trascende per essere col suo corpo e le sue movenze creatore del concetto stesso di divinità e non più creatura.
Mentre lavora ai ritratti di Agnolo Doni e di sua moglie Maddalena, Raffaello studia il tondo Doni di Michelangelo, e riprende la torsione della Madonna trasformando nella Maria che sorregge la caduta della vergine nella Pala Baglioni. Raffello studia anche Giotto, Masaccio, il Ghirlandaio, Botticelli, Fra Bartolomeo e tantissimi altri, non solo i migliori. Quando arriverà a Roma sarà l’allievo più rigoroso e umile di Bramante, che gli insegnerà l’architettura e frequenterà letterati di altissimo livello come il suo amico Baldassarre Castiglione e Calvo.
Da questo universo sentimentale e appassionato, Raffaello apprende l’amore per l’arte e la bellezza, assume l’eccellenza e la dura strada per generare il talento, impara la dialettica fra il familiare e l’innovativo, fra ciò che deve essere riconoscibile e ciò che meraviglia, capisce che l’arte è una meravigliosa manifestazione per esaltare la vita, si avventura nel mondo interno degli umani per coglierne l’essenza e restituircela. Di ogni maestro individua il suo talento specifico e si allena ogni giorno per usarlo nel coltivare il proprio.
In ogni città, in ogni fase della sua vita personale e artistica, Raffaello non ha mai smesso di cercare maestri che fossero di volta in volta capaci di portarlo a un livello superiore.
Relazioni di sponsorship (supporto)
Raffaello ha la capacità di costruire relazioni con i potenti, curarle e valorizzarle. Oggi si chiamerebbero raccomandazioni. Ma allora era solo porte che si aprivano per essere ascoltati e presi in considerazione. Era il merito che faceva il resto. Raffaello va a Città di Castello, la sua prima tappa come artista professionista, con la raccomandazione dei Montefeltro. Ma con sé si porta piccole tavole dipinte a testimonianza del suo talento da mostrare a potenziali committenti. Quando decide di andare a Firenze per imparare, non va a caso. Programma il viaggio, si dà degli obiettivi e cerca alleati. Per questo si fa fare una nuova lettera di raccomandazione. La lettera viene scritta nell’ottobre 1504 da Giovanna Feltria della Rovere, figlia di Federico da Montefeltro, moglie di Francesco Maria della Rovere, nipote di Giulio II. La lettera indirizzata a Pier Soderini, governatore di Firenze, presenta in modo affettuoso un Raffaello desideroso di imparare e di stabilirsi in modo permanente (o quasi) a Firenze. Giovanna Feltria Della Rovere scrive all’uomo più potente di Firenze che Raffaello “avendo buon ingegno nel suo esercizio, ha deliberato stare qualche tempo a Firenze per imparare, desidero che egli venga a buona perfezione”. Una richiesta di formazione e non di lavoro. In quel periodo ricordiamo che non tutte le opere erano esposte. Moltissime stavano nei grandi palazzi privati, gelosamente custodite. Per ammirarle, bisognava essere ospiti.
Nel 1508 Raffaello era pronto per Roma. Secondo il Vasari «questo avvenne perché Bramante da Urbino, (…), gli scrisse che aveva operato col Papa che, volendo far certe stanze, egli potrebbe in quelle mostrare il valor suo». Donato Bramante proveniva dalle vicinanze di Urbino e secondo il Vasari aveva un certo parentela con Raffaello. Bramante era l’architetto principale al servizio di Giulio II e da 1503 lavorava per la costruzione della Basilica di San Pietro. Ma se Bramante dice a Raffaello di venire a Roma, non ci sono fonti che dicono lo abbia raccomandato anche al Papa. Alcuni storici sostengono che Francesco Maria I della Rovere, il nipote di Giulio II, sia stato la persona che ha raccomandato Raffaello a Roma, su richiesta di Raffaello. Una richiesta partita nel 1508. Giulio II forse ha accettato l’invito di Francesco Maria ma si è anche consultato con Bramante. Quando Giulio II accettò di vederlo per metterlo al lavoro, Raffaello lasciò incompiuti i lavori fiorentini per andare a Roma. Aveva 25 anni, e oltre 20 anni di studio, apprendimento e esperienza.
Roma era una metropoli di artigiani, senza la ricchezza e lo sviluppo di Firenze, immersa nella mediocrità economica, nel caos dei pellegrini, nella continua lite di una classe dirigente che si dilaniava al proprio interno per incrementare i privilegi di casta e di famiglia. I pellegrini erano i principali clienti di locande, sarti e prostitute. Raffaello si innamorò perdutamente di questa città. Il 13 gennaio del 1509, sette mesi dopo la lettera, il nome di Raffaello compare nel registro dei pagamenti della camera apostolica.
Relazioni con la committenza
A differenza degli artisti-mercanti che operavano come liberi professionisti e nei periodi di magra facevano scorte di opere da rivendere, gli artisti più affermati lavoravano soltanto su commissione. Curare i committenti senza mendicare era un’arte. In Umbria fra i suoi committenti troviamo Andrea Baronci, mercante di lana di Città di Castello, varie volte priore della città, Domenico de’ Gavari, mercante e banchiere, Ser Filippo di Lodovico Albizzini, mercante di lana e notaio.
Raffaello è cosciente che il suo lavoro deve essere all’altezza se non superiore a quello del Perugino, che in quegli anni, ha il monopolio del mercato umbro. Il cliente per Raffaello non va semplicemente soddisfatto, deve essere meravigliato. Chi ha commissionato il lavoro deve sentirsi fiero, orgoglioso di aver scelto il maestro marchigiano. Deve potersi vantare con gli altri, suscitare ammirazione pubblica. Commissionare opere artistiche a maestri famosi, usando oro e lapislazzuli, era la maniera più elegante di misurare e mostrare il proprio successo sociale già nel XIV e XV secolo. La novità del XVI secolo stava nel valutare la qualità dell’artista più della preziosità dei materiali, fatto che generò una gara di ingegni. La capacità del committente di scoprire un giovane talento diviene un sinonimo di prestigio e di gusto. Albizzini chiede di dipingere a Raffaello lo stesso soggetto che era stato commissionato al Perugino per il duomo di Perugia. La gara fra artisti diventa gara fra i committenti. E Raffaello ha l’ambizione di diventare il migliore, ma è anche prudente. A Firenze non si misura con Leonardo e Michelangelo. Preferisce rinsaldare i rapporti con la committenza umbra, che abbandona solo in seguito a incarichi più attraenti. Così quando va a lavorare per Taddeo Taddei, intimo amico di Michelangelo e Agnolo Doni, ricco banchiere e collezionista, accetta commissioni dove può mostrare maggiormente la sua forza, quali quelle sul ritratto, dove suo padre era stato eccellente e che Michelangelo rifiuta. Fu allora che i ricchi banchieri fiorentini cominciarono a scambiare giudizi sul giovane pittore marchigiano. Arrivò così anche la committenza della famiglia Dei. Taddei, Doni e Dei, giovani ricchi e intelligenti, rappresentano la migliore committenza possibile fiorentina per un artista alla ricerca della perfezione. Con acume imprenditoriale, Raffaello seppe tessere con loro rapporti solidi, che prescindevano dalle protezioni e raccomandazioni cortigiane, e divenire protagonista assoluto della committenza laica. Ma senza mollare la committenza perugina, dove fra il 1500 e il 1506 gli vennero affidate le pale più importanti, come quelle commissionate da Atalanta Baglioni, dove poté sperimentare quello che aveva appreso da Michelangelo.
Amici e committenti diventano soggetti dei ritratti, i loro specchi magici. Fra i committenti a Roma ci sono ovviamente i papi, Giulio II e Leone X. I loro ritratti sono i più significativi del rapporto che Raffaello aveva con i propri committenti. Giulio II fu un papa guerriero, il primo papa condottiero della storia. Ebbe come obiettivo l’unificazione dei territori papali perduti, l’esaltazione del potere della Chiesa su tutto il territorio nazionale e l’indebolimento delle famiglie nobiliari di Roma che contendevano al papato il controllo politico e militare della città. Oltre ad esaltarne la forza e la potenza nei suoi affreschi, Raffaello lo ritrasse anche come un anziano, debole, mansueto, profondamente immerso in una pacata e compita riflessione spirituale, come un padre devoto, affidabile. Un’immagine che rispondeva a coloro che lo presentavano come un tiranno sanguinario.
Insieme al papa, le committenze sorsero dalle più potenti famiglie romane. Fra queste Agostini Chigi, che era forse il più importante dei banchieri di Italia e risiedeva a Roma, nel palazzo della Farnesina, a pochi metri dal Vaticano. A Venezia Agostino si innamora di una giovane e bellissima ragazza Francesca Ordeaschi. La porta a Roma e la sposa. Una ragazza destinata alla prostituzione assurgeva ai massimi onori sociali, sposata dal papa sotto gli occhi della nobiltà romana. Raffaello fu il cantore di questa rivoluzione del costume, un matrimonio fondato sull’amore. Per Agostino nacque Galatea, incarnazione di una bellezza femminile che si pone apertamente come soggetto della rappresentazione senza nascondersi dietro significati allegorici.
Raffaello si faceva interprete delle esigenze e degli scopi più profondi dei committenti e li traduceva in meraviglie. Non vedeva contraddizioni fra esprimere se stesso e soddisfare la domanda del committente, almeno fino a un certo punto della sua vita.
All’inizio lo fece anche con Leone X, anche se questi non era così contento di ereditare da Giulio II le equipe che avevano lavorato con lui. Sin dalla sua ascesa nell’affresco della Stanza di Eliodoro con l’incontro fra Attila e Leone Magno, Raffaello aveva posto il suo talento a dare a Leone X una certa solennità che elevasse un uomo in realtà goffo, sgraziato, inelegante. Leone X, il papa delle feste, delle ricchezze sperperate per esaltare la chiesa attraverso carnevali, lussi, banchetti, ambizioni dinastiche, contrastato dalla marea montante del movimento protestante, nel ritratto di Raffaello venne mostrato mentre analizza un testo antico e si consulta da umanista con due cardinali.
Con Giulio II, con Leone X e con i potenti locali, analizzare la domanda della loro committenza e porre il suo talento al servizio della sua piena soddisfazione, è per Raffaello l’occasione per innovare l’arte e tramandare capolavori. Veniva usato certo, pagato anche profumatamente per questo, ma, nonostante i limiti di una committenza strumentale, cercava di esprimere il meglio del suo stesso pensiero.
Relazioni di collaborazione e di Leadership Umanista
Raffaello pur accettando la committenza papale che lo rendeva unico pittore per le Stanze manovrò per recuperare il lavoro degli artisti esclusi e la loro collaborazione, perché all’epoca non aveva una bottega alle sue spalle. Già allora diede prova di una sapienza imprenditoriale e di una delicatezza di sentimenti verso i colleghi che altri non avrebbero mai avuto. D’altra parte non aveva una struttura operativa che lo sostenesse tecnicamente per la pittura parietale. Capì allora che avrebbe dovuto costruire una scuola formata sia da collaboratori esperti che da pittori anche più giovani di lui. “Il talento umano che rivelò nell’organizzare il lavoro altrui, gli fu tanto di aiuto quanto il talento artistico” (Forcellino, p. 149). Raffaello riuscì a stringere patti di collaborazione con maestri come Lorenzo Lotto, ma selezionò anche giovani artisti. Gli allievi lo consideravano come un padre e lui li inserì nel suo testamento integrandoli nella sua vita familiare, un tratto che non aveva precedenti in Italia.
Riorganizzò il modello della bottega quattrocentesca, prima gerarchizzata nei ruoli e nelle modalità di apprendimento, in un atelier, ovvero in un laboratorio di creazione, ideazione, realizzazione dove l’intera squadra collaborava all’obiettivo comune e che era al tempo stesso un luogo di apprendimento e formazione. Grazie al suo carattere solare e affabile, Raffaello favorì relazioni gentili come quelle che avevano caratterizzato il suo apprendistato nella bottega del padre. Il padre fu la figura che lo orientò nelle scelte con “grande apertura mentale verso ogni forma di talento”[4]. Infatti “non aveva frustrazioni da riscattare e in qualità di capo bottega poteva riprodurre le relazioni gentili e fruttuose che avevano caratterizzato il suo apprendistato. (…) Come emerge dai rapporti che strinse appena arrivato a Roma, la sua educazione sociale lo collocava all’interno di un progetto umano ricco e sfaccettato, di cui darà conto uno dei suoi amici più cari, Baldassarre Castiglione, che prenderà l’archetipo della signorilità cortigiana proprio dall’esempio della corte urbinate.”
La peculiarità della bottega di Raffaello stava nel cercare di cogliere le qualità specifiche di ognuno e utilizzarle per la migliore riuscita del lavoro in generale. Ognuno doveva esprimere i suoi maggiori punti di forza e veniva valorizzato per le sue specifiche attitudini. Raffaello era un coach ante litteram. Nella bottega c’erano almeno tre tipi di relazioni:
- Apprendisti e allievi che si trasformavano in artisti maturi e assistenti come Giovan Francesco Penni e Giulio Romano, che ereditarono la bottega dopo la morte di Raffello;
- Garzoni e tecnici che venivano mandati in Francia, Venezia, Ferrara, Napoli e in Grecia per varie commissioni, fra cui la misurazione dei rilievi dei monumenti;
- Collaborazioni con artisti indipendenti e affermati per progetti.
Con la Scuola di Atene, Raffaello mette a punto anche il suo metodo di delega e organizzazione del lavoro. Il disegno del cartone preparatorio comprendeva ombre, sfumature, espressioni psicologiche, dettagli che fornissero ai collaboratori un’idea precisa di quello che doveva essere finale. Maggiore era il grado di compiutezza del disegno preparatorio, minori erano i margini di errore, più efficiente era la delega. La centralità del disegno preparatorio rappresenta un cambio di paradigma nell’investimento dell’impegno artistico. Leonardo fu il primo a trasferire sforzi e risorse nel lavoro preparatorio del disegno, sottraendolo alla fase esecutiva. Per esempio, per l’Ultima cena, gli schizzi, gli studi preparatori e quelli definitivi per teste, mani, collocazione dei personaggi erano circa 200. Investire risorse immaginative e creative nella fase del disegno significava fondare una vera e propria fase di ricerca e sviluppo grazie alla quale l’opera poteva avere un grado di novità sorprendente. Centrale fu anche la figura di Michelangelo, che aveva preparato centinaia di disegni e schizzi per la Sistina. Ma Raffaello fu il primo artista che si impegnò a un grado così intenso di preparazione per finalizzarlo alla direzione del lavoro della bottega.
Leonardo e Michelangelo non ricorsero mai a degli assistenti nello stadio significativo delle opere che erano sotto il loro nome. Il Ghirlandaio passava alla sua bottega una scarsa quantità di disegni e nelle sue opere ci sono scarti qualitativi ben visibili. Il Perugino economizzava sull’invenzione, usando ripetutamente gli stessi cartoni o smontandoli per riutilizzarne in parte. Nella pittura Raffaello poteva anche ripassare il lavoro degli assistenti, ma questo non era possibile negli affreschi. Lo fece attraverso il disegno. Secondo Shearman[5], Raffaello non delegò mai la fase inventiva di qualsiasi opera di cui era pittore, ma altri lo smentiscono perché delegare la parte creativa era parte del suo essere coach e maestro. Gli assistenti partecipavano al lavoro preparatorio disegnando parti del progetto, approntando le copie in bella di invenzioni lasciate in uno stato disordinato, completando schizzi ancora approssimativi, conservando la documentazione grafica dei disegni preliminari, eseguendo studi dal naturale. Gli allievi imparavano a disegnare facendo copie precise dei progetti del maestro.
Il disegno aveva numerosi scopi:
- Ricerca e sviluppo, ideazione, progettazione e delega;
- Progetti da far visualizzare al committente;
- Strumento di marketing per gli altri potenziali committenti.
Con Raffaello, anche il disegno divenne lavoro di squadra. Raffaello organizzò decine di persone e ne formò altrettante. Lui e i suoi collaboratori divennero un vero e proprio gruppo creativo, capace di affrontare e risolvere con le rispettive specializzazioni ogni questione. Giulio Romano, Giovanni da Udine, Giovan Francesco Penni erano artisti nel pieno della loro maturità, ma si erano formati nella bottega.
Un settore della bottega era dedicato allo studio dell’architettura. Raffaello era maniacale. I tecnici specializzati nel rilievo non solo misuravano i templi e le costruzioni antiche romane, ma venivano mandati in giro per l’Europa e fino in Grecia. Raffaello delegò a un umanista d’eccellenza come Fabio Calvo da Ravenna la traduzione del De Architettura di Vitruvio. Un testo classico tradotto ad istantia dell’artista. Lo studio della precettistica vitruviana, l’osservazione diretta dei monumenti, la misurazione dei rilievi, la sperimentazione di nuovi materiali diedero frutti tecnici sorprendenti. Grazie a queste equipe politecniche, composte da artigiani, umanisti, scienziati, artisti, architetti, la bottega di Raffaello fu in grado nel 1515 di riprodurre l’impasto per stucchi a basso rilievo come perfetta imitazione del marmo, una tecnologia che era sparita con la fine dell’Impero romano.
Grazie a questa molteplicità di relazioni, Raffaello inventò un artista nuovo, capace di assegnare a se stesso la direzione e i traguardi della propria ricerca. Immaginava anche un nuovo modo di vivere. Il progetto della sua casa in Via Giulia per sé e per i suoi assistenti citato prima ne è un esempio.
Relazione di amore e di amicizia
Per Raffaello la vita è un dono sacro e va goduto nel suo splendore. Questo concetto sentimentale ritorna in ogni sua opera, nella sua vita, nelle sue relazioni. Seguendo la corrente dei principali umanisti cristiani, Raffaello mostra l’amore per la vita inneggiando alla sua bellezza. Laddove la vita era un esilio dell’anima e il corpo la prigione in cui era rinchiusa, Raffaello fa suo il precetto ficiniano che essere felici significa donare bellezza alla bellezza del mondo.
Per secoli, a partire dall’anno Mille, si diede corso alla rinascita di una nuova soggettività che cominciava a rivendicare il diritto a pensare, innamorarsi e vivere. Il corpo prima disprezzato, ora lo si comincia a considerare naturale, pieno di fascino e la sessualità libera dal peccato diventa il punto di arrivo di una lotta lunga almeno tre secoli. Con Raffaello la figura femminile prende forma e significato non per un’elevazione spirituale che porta a Dio ma per un’evoluzione e trasformazione umana. Da instrumentum diaboli, l’immagine femminile diventa simbolo e ricerca della propria realtà umana, fonte di gioia, motivo di felicità. Amare una donna è la principale forma di felicità, un messaggio eversivo rispetto a Dante e Petrarca. Raffaello ama e ama praticare l’amore. Raffaello ama le donne, che spesso lo accompagnavano nei suoi lavori e diventavano le modelle delle sue Madonne[6]. Condivideva con Baldassar Castiglione, suo amico, l’ideale di un amore gentile ed elevato, per cui il bacio è congiungimento d’anima e di corpo. Condivideva con Agostino Chigi la felicità dell’amare trasgredendo paradigmi e convenzioni dominanti.
Nel 1515 Raffaello governava la scena artistica a Roma. Fu allora che sentì un bisogno di libertà artistica che non aveva mai potuto esprimere prima. E questo anche a costo di deludere i suoi committenti. E’ il caso di Alfonso d’Este, duca di Ferrara, che arrivò a minacciare Raffaello di morte (“gli potrete dire che egli advertisca di non provocare l’odio nostro ove gli portano amore” scrisse Alfonso irato perché il quadro promesso non arrivava e non arriverà mai; e Alfonso era uomo d’armi). I molti impegni di Raffaello non spiegano il rifiuto a lavorare per Alfonso. Raffaello trova infatti il tempo per dedicarsi a opere di carattere privato come i ritratti delle sue amanti e dei suoi amici. Stava cercando altro. Voleva andare oltre la perfezione formale e tecnica. Mentre Leonardo investiga la natura, Raffaello si concentra sull’essere umano. I suoi ritratti raggiungono una perfezione assoluta. Predilige soggetti familiari come gli amici e le amanti, nei quali può spingere più a fondo la ricerca psicologica, attraverso l’empatia sentimentale che lo lega ai suoi cari. Pensiamo ai ritratti del cardinal Bibbiena, al doppio ritratto di Agostino Beazzano e Andrea Navagero, a quello di Baldassarre Castiglione, al doppio ritratto che ritrae Raffaello con un amico.
Fino ad allora i ritratti dovevano restituire il contesto sociale e materiale del protagonista. Raffaello sposta il ritratto su una dimensione differente: quella delle persone che ritrae. Si sofferma sulla loro essenza, sulla loro personalità, ricerca il nucleo stesso della loro originalità umana. E’ la ricerca del lampo che coglie la verità profonda dell’anima individuale. Come scrisse Pietro Bembo, la persona ritratta è simile a se stesso più nella pittura che nella realtà! Raffaello parte da un’immagine ideale (arco sopraccigliare, taglio dell’occhio a mandorla, ovale del viso e mento piccolo) che lo aiuta come la cornice in cui narrare frammenti di umanità inafferrabili. Con gli amici dimostra che poteva esaltare la loro sapienza e bellezza anche senza metterli in posa o avere vestiti di particolare riguardo.
Fin dove si era spinto Raffaello in questa ricerca? Dove lo stava portando?
La relazione con la comunità umana: la sua ultima sfida
Raffaello era a capo della ricostruzione della pianta di Roma antica, impresa che interessava più i filosofi che gli architetti. Sappiamo che i rapporti con Leone X non erano idilliaci (qualcuno pensa che Leone X ucciderà Raffaello per gli ingenti debiti che aveva contratto con l’artista). Io invece penso che Raffaello stesse entrando in rotta di collisione con parte della gerarchia e settori dei potentati locali (i cosiddetti “palazzinari” che non erano solo romani). Baldassarre Castiglione ci racconta che due cardinali criticarono il viso rosso dei Santi Pietro e Paolo in una tavola dell’artista. Al che Raffaello rispose:
«Signori, non vi meravigliate, ché io questi ho fatto a sommo studio, perché è da credere che san Pietro e san Paolo siano, come qui gli vedete, ancor in cielo così rossi, per vergogna che la Chiesa sia governata da tali omini come siete voi» (Il Cortegiano, II, LXXVI) |
Il lavoro su Roma Antica, divenne un progetto complessivo, armonizzare lo sviluppo di Roma valorizzando i suoi antichi splendori architettonici. Ma per farlo, si doveva rompere una tradizione di sfruttamento e distruzione. In una lettera al papa, Raffello e Castiglione scrivono:
«Quanti Pontefici, Padre Santissimo, li quali avevano il medesimo officio che ha Vostra Santità, ma non già il medesimo sapere, né il medesimo valore e grandezza d’animo, né quella clemenza che la fa simile a Dio: quanti, dico, Pontefici hanno atteso a ruinare templi antichi, statue, archi e altri edifici gloriosi! Quanti hanno comportato che solamente per pigliar terra pozzolana si sieno scavati dei fondamenti, onde in poco tempo poi gli edifici sono venuti a terra! Quanta calce si è fatta di statue e d’altri ornamenti antichi! che ardirei dire che tutta questa Roma nuova che ora si vede, quanto grande ch’ella si sia, quanto bella, quanto ornata di palagi, chiese e altri edifici che la scopriamo, tutta è fabricata di calce e marmi antichi.»
L’attacco ai papi era radicale, aperto, diretto e richiedeva una svolta epocale.
Il più importante dei suoi progetti era restituire la pianta antica di Roma, che significava penetrare consapevolmente non solo nell’arte antica ma nel Mondo Antico alla cui grandezza e felicità aspirava la Roma dei suoi giorni. Dopo la sua morte, Marcantonio Michiel[7] scrisse a un amico a Venezia che Raffaello aveva cominciato a fare per Roma quello che Tolomeo aveva fatto per l’universo. Stava compiendo una ricostruzione grafica che comprendeva le piante degli edifici antichi, le proporzioni, le forme, gli ornamenti. Baldassarre Castiglione scrisse che Raffaello stava richiamando in vita il cadavere di Roma. La valorizzazione di Roma e della sua bellezza non era concepibile, secondo Raffaello e Castiglione, se non nell’ambito di una politica globale di ricostituzione del contesto monumentale. A tal fine “haveva ottenuto un breve del Papa che niuno poteva cavare in Roma, che non lo facesse intravenire».
Raffaello stava diventando il punto di riferimento di tutti coloro che nella rinascita di Roma Antica vedevano le premesse necessarie per la costruzione di una società più giusta felice e pacifica, qualcosa che andava ben oltre la produzione di immagini seppure meravigliose. Certo lo faceva a partire dalla bellezza: la bellezza di Roma antica, delle sue meraviglie stratificate nel tempo, dell’immenso tesoro di monumenti e costruzioni che mani e menti umane avevano creato nel corso di secoli.
Primo dei moderni, Raffaello aveva intuito che nella ricerca artistica si rispecchiavano esigenze più profonde di cambiamento e di conoscenza ed è per questo che celebrarlo solo come pittore oggi sarebbe diminuirne il valore. Nessun artista è mai stato al centro di una rete di relazioni tanto importanti come fu Raffaello; Agostino Chigi, Castiglione e Bembo, sono solo alcune delle grandi figure che in quegli anni ne condivisero l’intimità e l’avventura. Una intera città si identificava con l’artista il cui carattere amabile gli fu d’aiuto nel tessere le relazioni che fecondò con la sua intelligenza, facendo sì che le competenze di ognuno concorressero al progresso intellettuale di tutti, un’abilità che mise in atto con risultati straordinari, anche nel proprio atelier sviluppando il talento di assistenti che divennero poi grandissimi artisti. Questa capacità di eliminare i conflitti non solo nei suoi dipinti, dove tutto sembra confortare l’uomo e spingerlo verso orizzonti più alti e felici, ma nella sua attività intellettuale, imprenditoriale e artistica, è la qualità più straordinaria di Raffaello e oggi la meno celebrata, e questo è un grandissimo peccato, perché è la sua eredità più importante.[8] Raffaello incarnava le esigenze degli umanisti più visionari, come Giovanni Pico della Mirandola, che voleva convocare un congresso mondiale delle religioni per costruire dialoghi, convivenze, condivisioni fra fratelli e sorelle. Raffaello voleva costruire una Roma la cui bellezza risiedesse nella concordia. In questa visione comunitaria, quanti nemici, potenti e mediocri, nobili e indebitati, ricchi e miseri, si era attirato? Quanti Alfonso d’Este aveva deluso? Non dimentichiamoci che in quell’epoca l’assassinio era moneta corrente e nelle strade erano sparse pozze di sangue innocente.
Così Raffaello morì a soli 37 anni, per una febbre, forse indotta, certamente malcurata, a brevissima distanza dal suo amico e committente Agostino Chigi.
Hanno scritto che durante il suo funerale, per le vie di Roma, mentre il feretro veniva portato al Pantheon, dalle finestre e dai balconi, le donne lanciavano dei fiori sui resti dell’artista e non ci fu occhio che non versasse lacrime. Era come un lutto immenso e una calamità pubblica.
Il Castiglione così scrisse in occasione della morte di Raffaello: “io son sano, ma non mi pare essere a Roma, perché non vi è più il mio poveretto Raffaello. Che Dio abbia quell’anima benedetta”. E’ una lettera che scrive alla madre, per dirle che Raffaello è morto e per rassicurarla delle sue condizioni di salute (io son sano). Ma perché rassicurarla? Dopo pochi mesi dalla morte di Chigi muore anche sua moglie. Alfonso Paolucci scrisse ad Alfonso d’Este (ancora lui!) il 7.4.1520 dicendo che Raffaello era stato sepolto all’interno del Pantheon e aveva lasciato un testamento. Di questo testamento non fu mai reperita alcuna traccia. Raffaello aveva dato delle disposizioni sui suoi lasciti e sulla sua sepoltura quando era ancora nel fiore degli anni; forse qualcosa aveva intuito. Ma fuori da ogni logica è che non ci sia pervenuto nulla di Raffaello al di là delle sue opere: un cavalletto, delle ciotole per mescolare le terre, un oggetto d’uso personale, gioielli, libri, il rendiconto della bottega con gli introiti delle commissioni e l’elenco delle spese; nulla. Ancora più sorprendente il fatto che non ci sia pervenuta la sua corrispondenza, salvo qualche dubbia lettera autografa, un diario, uno scritto, una poesia. Nulla ci resta delle sue botteghe, un enorme apparato dove si muovevano una cinquantina di allievi, una quantità incredibile di documenti e materiali risucchiati nel nulla, come a voler cancellare ogni traccia del suo passaggio.
Ancora oggi la morte di Raffaello rimane un mistero.
Cerchiamo ora di sintetizzare le lezioni/proposte che Raffaello ci offre per costruire un talento umanista.
Relazioni | Lezioni di Coaching |
Relazioni di apprendimento | Se punti allo sviluppo del talento, dovrai apprendere per tutta la vita con passione e umiltà. In ogni fase della tua evoluzione professionale, cerca un maestro che riesca a valorizzare i tuoi punti di forza per superare i tuoi punti deboli e spingerti oltre il punto in cui sei arrivato. |
Relazioni di sponsorship | Costruisci alleanze che siano fondate sulla conoscenza, il rispetto e l’affetto reciproco e chiedi loro aiuto quando ne hai bisogno per mostrare ciò che sai fare. |
Relazioni con la committenza | Rendi fiero il committente per l’averti scelto, fai in modo che la tua opera non solo soddisfi la sua domanda, ma la meravigli. Usa ogni committenza per autosuperarti e acquisire nuove competenze. |
Relazioni di Coaching | Collabora con gli altri artisti, ma soprattutto forma una squadra che abbia la tua stessa visione. Con i tuoi allievi sii gentile e rigoroso. Valorizza di ognuno le attitudini e potenzialità specifiche dentro il gioco di squadra. Delega in modo scientifico. |
Relazioni di amore e di amicizia | Non essere scisso. Armonizza la vita professionale e quella affettiva. Coltiva i tuoi sentimenti, come le principali fonti della tua felicità. Fa che ispirino il tuo lavoro. Condividi le tue visioni con gli amici e cerca di fare amicizia con chi condivide la tua visione. |
Relazioni con la comunità | Cerca di dare il tuo contributo, quello che deriva dai tuoi talenti, alla ricerca delle condizioni che favoriscano beni comuni in grado di migliorare la vita di tutti. Ma stai attento alle inimicizie che il tuo umanesimo sortirà. Cercare di fare del bene è sempre rischioso. Ma il pericolo non è una scusa per desistere. |
luca.stanchieri@scuoladicoaching.it
[1] Vittorino da Feltre aveva fondato una teoria pedagogica che puntava allo sviluppo delle potenzialità dei bambini, attraverso la semplicità del cibo, gli esercizi fisici, il gioco e l’allegria. La sua casa era chiamata la giocosa.
[2] “Sappi che no° vorrebbe essere mei tempo a imparare : come , prima studiare da piccino un anno a usare il disegno della tavola ; poi – stare con maestro a bottega, che sapesse lavorare di tutti i membri che appartiene, di nòstr’ arte ; e stare e incominciare a* triare de’ colori ; e imparare a cuocere delle colle , e triare de’ gessi; e pigliare la pratica dell’ ingessare le ancone , e rilevarle , e raderle ; mettere d’ oro : granare bene’ ; per tempo di sei anni . E poi , in praticare a colorire: adornare di mordenti : far drappi d’ oro : usare di lavorare di mu ro ; per altri sei anni , sempre disegnando , non abbandonando mai ne in dì di festa , nè in dì di lavorare . E così la natura per grande uso si convertisce in buona pratica. Altrimenti, pigliando al tri ordini , non sperare mai che vegnino a bene e perfezione . Che molti sono che dicono, che senza essere stati con maestri hanno imparato l’arte . Nol credere , che io ti do 1 esempio di questo libro; studiandolo di dì e di notte , e tu non ne veggia qualche pratica con qualche maestro , non verrai mai da niente , non che mai possi con buon volto stare fra i maestri. “ Cennino, Il libro dell’arte.
[3] La bottega era luogo di incontro fra i migliori artisti, di conoscenza reciproca, di confronto sui problemi dell’arte, ma anche di socializzazione in un’atmosfera spesso festosa.
[4] L’educazione culturale del padre gli permise di avere “apertura mentale verso ogni forma di talento e di ricerca, e una sensibilità intellettuale che lo poneva molto al di sopra della mentalità artigiana e molto vicino alla raffinatezza della corte di Giulio, composta da letterati filosofi e teologi di prima grandezza” (Forcellino, pp 149-151).
[5] Sherman J., Studi su Raffaello, Electa, 2007
[6] Conquistò un primato assoluto, la produzione di Madonne: in 22 anni di attività ne dipinse ben 25. E poiché si dice che nei loro volti riproducesse quelli delle sue amanti, se ne deduce che privo di donne non fu mai. Fonte: Raffaello Sanzio: 37 anni ben dipinti – RADICI (radici-press.net)
[7] Marcantonio Michiel (Venezia, 1484 – Venezia, 9 maggio 1552) è stato un letterato e collezionista d’arte italiano. Appartenente alla nobile famiglia veneziana dei Michiel, durante la sua vita collezionò opere d’arte privilegiando quelle del Rinascimento veneto. Contemporaneamente si dedicò alla catalogazione delle opere presenti nelle collezioni d’arte più rilevanti di Padova, Milano, Pavia, Bergamo, Crema e Venezia. Stilò un manoscritto (pubblicato postumo nel 1800) Notizia d’opere di disegno, in cui descrive con dovizia di particolari le sculture, pitture e disegni presenti nelle collezioni pubbliche e private del Lombardo Veneto.
[8] Forcellino; da Il Giornale dell’Arte numero 406, marzo 2020)
Bibliografia
Wittkower R. e M., Nati sotto saturno, la figura dell’artista dall’Antichità alla Rivoluzione francese, Einaudi,1996.
Pommier E., L’invenzione dell’arte nell’Italia del Rinascimento, Einaudi, 2006
Forcellino A., Raffaello, una vita felice, Laterza, 2006
Sherman J., Studi su Raffaello, Electa, 2007