Quante volte ci capita di trasformare le relazioni più affettuose in conflitti dolorosi? Quante volte la relazione con un collega che stimiamo si trasforma in una lotta a chi ha più ragione? Come mai una critica che ci sembra sacrosanta viene assunta come un’offesa personale? E quante volte pensiamo che dobbiamo difenderci da chi ci critica sentendoci sminuiti? Non ci capita forse che spesso ci troviamo a scegliere fra il dire la verità e mantenere una buona relazione?
Non siamo soli di fronte a queste difficoltà, visto che persino Socrate si è trovato spesso nei guai. Socrate ha fatto un lungo lavorio su se stesso. Quando finalmente scoprì la sua vocazione, aveva cinquant’anni. All’epoca del “so di non sapere”, si sentiva invaso da una missione, affidatagli da un dio. In questa prima fase della sua conversione maieutica, Socrate è alla ricerca del vero bene che passa attraverso la decostruzione di un falso sapere. La sua foga è potente, oggi diremmo fanatica. Ha scoperto che la virtù rende felici, se è autentica, vera, personale. Ma il suo entusiasmo diviene aggressività. Alcuni infatti dicono che nelle sue indagini discutesse in modo piuttosto violento; forse era appassionato, ma irruento. Quando ciò accadeva, gli ateniesi si arrabbiavano e lo prendevano a pugni, lo deridevano e lo disprezzavano. Pur tollerando litigi e offese, Socrate si domandava come poteva accadere che nella ricerca della verità per il bene dell’interlocutore, si finisse alle mani. Quando Socrate incalzava con le sue domande, l’elenchos (le domande incalzanti) si trasformava in una competizione violenta, come se in gioco non ci fosse il bene o la verità, ma la vittoria della ragione, la propria. La contiguità fra confutazione e desiderio di vincere veniva accentuata dall’atteggiamento ironico, che doveva apparire sarcastico. E’ probabile che il suo disprezzo nei confronti di un sapere nocivo, distruttivo e ingannevole si trasformasse in un vissuto di disprezzo personale nell’interlocutore che lo incarnava. La ridicolizzazione del falso sapere diveniva ridicolizzazione dell’interlocutore. Molti cercarono di farlo capire a Socrate. Ippia, il filosofo, rimproverò Socrate per il suo modo di procedere. Interrogando e confutando, senza esprimere opinione su nulla, Socrate derideva gli altri anche non volendo. Pur non essendo queste le sue intenzioni, Socrate capì che la sua confutazione potesse essere scambiata con il desiderio di vincere in una disputa. D’altra parte non era questa la finalità della retorica sofistica che per anni aveva insegnato? La retorica infatti allenava il discorso politico, che era competizione e ricerca del proprio vantaggio, attraverso il ricorso all’odio verso il nemico. E allora bisognava preferire una relazione di amicizia o la ricerca della verità?
Comprendendo che l’interlocutore poteva entrare in una situazione emotiva di disagio o di ostilità, Socrate cominciò a ritrarsi “come si fa prima della tempesta presso una roccia marina” (Plutarco in A. Cozzo), abbassava la voce e sorrideva, porgendo uno sguardo più mite. Capì che l’ironia, alla stessa stregua di una critica, rischiava di mettere sulla difensiva l’interlocutore. Poteva avere la sensazione di essere attaccato personalmente, messo all’angolo, fare una brutta figura. Come evitare che una dinamica insorgesse senza rinunciare alla ricerca della verità? Si poteva combinare la relazione di amicizia con la ricerca del vero oppure erano in contraddizione? Prudenza e risolutezza, morbidezza e audacia, affetto e verità erano conciliabili o bisognava fare una scelta?
Socrate comprese che doveva modificare il proprio set mentale: lo scopo non doveva essere quello della vittoria. Certo non poteva evitare di essere schernito dagli interlocutori più riottosi e tracotanti, e non poteva usare l’ “adulazione” per convincerli e ammansirli. Era esattamente ciò da cui voleva prendere le distanze. Il discorso “politico” non esitava infatti a niente pur di ottenere consenso, trattando la verità a opinione conveniente da formulare nel momento, mosso dall’odio e dall’interesse personale. Nel Gorgia Socrate afferma “io non sono un politico”. Ma non poteva rispondere a questi imponendo la propria verità. Il suo errore era stato considerarsi come colui che fa nascere le idee negli uomini. Una visione individualistica, presuntuosa e arrogante che veniva punita con reazioni violente. “Far nascere” la verità non poteva essere svolta da un individuo, ma solo da una relazione. Il bene che ciascuno porta con sé era possibile scovarlo solo a patto che la levatrice non fosse Socrate ma la relazione di cui Socrate era parte. Non il filosofo, ma la relazione filosofica. Quando critichiamo o ci sentiamo criticati, è come se usassimo un’aula di tribunale, una roba da giudici, con il rischio del carcere. Socrate capì che solo una relazione benefica poteva far emergere verità scomode ma liberatorie. Ma come costruirla?
Socrate propose tre pilastri: l’ambito, la premessa e la gentilezza. L’ambientazione non poteva essere il mercato o l’agorà, non poteva avere lo spettacolo teatrale come modello o quello dell’assemblea politica, ma un luogo, come la sua scuola chiamata il pensatoio, dove le persone potevano essere a proprio agio e distese. Se si prendeva cura del luogo, le persone si sarebbero sentite accolte e preparate e questo facilitava l’alleanza. Il secondo pilastro era la premessa; sin dall’inizio Socrate doveva esplicitare che la relazione era benevola e piena di fiducia reciproca. Solo una relazione positiva avrebbe permesso un incontro sincero del dialogo interiore e di quello esteriore. Socrate si accorse che doveva richiedere esplicitamente al proprio interlocutore di collaborare, di lavorare insieme, di costruire e condividere in comune, all’operazione della ricerca della verità. La disponibilità di entrambi doveva essere aperta in premessa. Si doveva esplicitare che contro il falso sapere per scoprire il bene e il vero era necessario un rapporto caldo, amichevole, alleato. Senza un rapporto amichevole il bene veniva meno d’entrata, perché era nel rapporto vivo che doveva essere vissuto. La procedura fredda e impersonale andava trasformata in una procedura calda e compartecipata. Una buona dialettica comportava l’appello palese ad un rapporto di amicizia tra gli interlocutori anche nel discutere verità scomode: in virtù di esso si poteva concordare o discordare ma sempre con benevolenza e non come in una competizione ostile. Scienza, benevolenza e franchezza potevano armonizzarsi grazie al terzo fattore, la gentilezza. Rispondere con mitezza, con calma, con generosità e magnificenza, con indulgenza e senza mai durezza era il passo successivo. Non bastava l’accordo iniziale, la benevolenza doveva manifestarsi nel corso di tutto il dialogo dialettico, per permettere alla franchezza di manifestarsi senza ostilità, ma sempre con grande rispetto, magari anche mostrando il proprio dispiacere per non potere essere d’accordo.
L’arte di forgiare insieme categorie di bene e di vero divenne così un’arte delicata, che ancora oggi fatichiamo ad apprendere.
Coach e fondatore della Scuola di Coaching Umanistico
luca.stanchieri@scuoladicoaching.it